Quante volte siamo stati additati di essere trogloditi, retrogradi o assassini che godono nell’uccidere creature come sfogo delle proprie frustrazioni? O, più semplicemente, quante volte abbiamo omesso di raccontare aneddoti sulla nostra recondita passione, del perché sacrifichiamo volentieri una serata goliardica da protrarre fino all’alba successiva tra drink e musica a tutto volume, solo per passare quella stessa alba sull’argine di un chiaro od ai margini di un bosco?
Lo ammetto, più volte mi ci sono scontrato, tante altre ho provato a far capire cosa mi muove a far tutto ciò ed a rinunciare al resto, quando vado a caccia. Quando mi ci sono cimentato ed invischiato, non ne sono uscito mai appagato ed ho realizzato che la caccia è un frutto che si coglie ancora acerbo, e matura nelle mani di chi lo ha colto in tenera età. Nell’istinto innocente del bambino giace il seme della ars venandi, fino al punto in cui essa viene prima repressa, poi soppressa dai luoghi comuni, dalla mistificazione che del prelievo del selvatico si fa sui testi scritti e nei dialoghi tra maestro ed allievo, a partire dagli ambienti scolastici, per passare alle associazioni culturali, per finire con i movimenti politici. L’opera di scollamento dell’etica dalla caccia, che indissolubilmente si appartengono a vicenda, disegna un ritratto vituperato della caccia stessa, come freddo ed inutile eccidio di animali. Lo scollamento comincia con la decontestualizzazione dell’insieme delle azioni, dei gesti, delle emozioni che precedono l’abbattimento, che spesso è solo eventuale. Quando mi capita di parlare di caccia, non descrivo mai l’atto del prelievo: non perché tema le classiche “menate” sulla crudeltà verso animali indifesi, sulla lotta ad armi pari, eccetera; ma perché per un cacciatore vero l’abbattimento è sempre un momento di conflitto interiore, che egli preferisce vivere in solitudine. Mentre scrivevo il testo “Appunti di Caccia” ho pensato continuamente al lettore scettico ed
anche a quello ostile all’attività venatoria, ed a come poter presentare ad un “non addetto ai lavori” una tematica così delicata ed apparentemente controversa come la caccia, eppure in realtà così indissolubilmente legata alla vita umana. La caccia è vita e morte assieme, racconta la fatalità della vita, che ti ubriaca di odori e di suoni non riproducibili, che ti sporca e ti taglia le mani, che ti fa ammalare, che ti riduce ad uno straccio e la sera sei da gettar via, che ti fa battere il cuore e ti
manca dal secondo in cui volgi le spalle all’appostamento per avvicinarti all’auto, perché è l’ultima giornata. La caccia è rude, spietata, sincera. La caccia è soprattutto VERA, come l’amore. Ed essendo così dacché umana memoria e la storia esistono, cancellare la caccia non porterà ad un mondo migliore, come vogliono farci credere sin dalla tenera età, perché il mondo è nato già perfetto, e la caccia allora già esisteva. Al più, eliminarla potrà far tirare un sospiro di sollievo ai
paladini dell’animalismo e godere di quella ipocrita e edonistica sensazione di redenzione all’idea di aver salvato dei selvatici. Insomma, quella sensazione che fa sentire con la coscienza pulita, pur restando dietro una tastiera a forgiare slogan fondamentalisti ed anti-qualcosa.

La realtà è che non esiste individuo più animalista ed ambientalista del vero cacciatore. Ogni giorno assisto ad accumuli di rifiuti speciali in zone che rientrano in parchi naturali, dove prima la caccia era consentita ed il presidio umano garantito dal cacciatore stesso, che costituiva deterrente ai balordi dediti a dissipare immondizie di varia natura in giro per campagne. Ecco, mi guardo indietro e penso che prima, quando a caccia in quei posti potevo andarci, non vedevo scempi di tale fatta, ma penso anche che queste associazioni di soggetti che spesso disturbano l’attività venatoria con urla, rumori ed imprecazioni varie, potrebbero dimostrare di tenere all’ambiente impegnandosi a segnalare lo sversamento di rifiuti in aperta campagna. Questa sarebbe una attività preziosa per il nostro territorio, oltreché lecita, a differenza della prima.

Chiudo questa parentesi un po’ polemica per riportare in calce un paragrafo che con piacere estrapolo dal testo “Appunti di Caccia”, con l’augurio che la passione che ci accomuna possa far comprendere a chi critica la caccia che non c’è nulla di male nel rispettare le proprie origini, che tali restano finché la specie umana popolerà il nostro pianeta.

“Il tragitto che percorri a piedi l’ultimo giorno è un miglio verde tragicomico: riduci il passo, osservi tutto, gli stivali, il fango che si aggrappa e quello che cede dopo qualche pestone, la punta delle canne che guardano mestamente il terreno zuppo, i primi germogli della semina, e li scansi: vorresti che la natura lo noti perché magari ricambi con un ultimo incontro prima di arrivare troppo vicino all’auto; galleggi stantio tra il patetico e l’infantile, ma da fuori non si vede. L’ultimo
sole porporino spennella i tronchi e le fronde a tinte roventi. Se il crepuscolo non ghiacciasse i piedi e non avessi bisogno di aumentare il passo per scaldarmi, la farsa della camminata al ralenti durerebbe fino al buio pesto e l’auto rimarrebbe sempre quel bottoncino bordeaux a ridosso del pagliaio. Poi arrivi. Scarichi tutto nel baule. È finita.

Tiro la linea, a tratti penso che, se non rinnovo più per due o tre anni, poi mi passa e mi defilo definitivamente da questo magone periodico. Peraltro, potrei uscire di più il venerdì sera, sarei più… “normale”. Potrei apparire meno strano di chi riempie il proprio tempo libero con più amene occupazioni. Ma non potrei più raccontare delle improvvisate fuori porta con gli amici di brine, fangaie e tramonti, delle veglie alle quattro, degli appostamenti vani per ore e ore carichi di speranze che sistematicamente si riducono a qualche genuina bestemmia, perché il carniere è
quasi sempre vuoto; degli appunti sui posizionamenti dell’indomani sul retro della tovaglietta di un pub, dei brandeggi sul fango alto e di quello sparato sui cristalli, dei pranzi alle dieci e mezza per correre prima possibile a riappostarsi per il masone. E poi io vedo tanti colori, odo tanti suoni, mi stanco (tanto, a volte, come oggi, tantissimo), sento tanti odori, provo sensazioni familiari solo a un bambino che scopre qualcosa per la prima volta. Non credo di essere pronto a barattare qualche ora di sonno in più per tutto ciò, non ancora.”

Tratto da Appunti di Caccia

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